mercoledì 30 novembre 2011

UN ANNO FA, CARO MAESTRO...


Un anno fa, caro Maestro Monicelli, hai deciso di lasciarci. E lo hai fatto tu, con un gesto di grande dignità, da quell'uomo libero che eri e che sei sempre stato. 
Hai deciso di lasciarti e di fregare la vita e la morte sul filo di lana. Hai potuto permettertelo, certo, ma ciò che mi ha colpito allora è stata la grande dignità con cui hai accompagnato il tuo gesto. La dignità dell'uomo che dice: basta! In certi casi si può fare. Avevi 95 anni e hai vissuto una vita, suppongo, meravigliosa (e ci hai fatto vivere tanti momenti meravigliosi anche a noi). Quindi... perché non fregare 'sta cazzo di sorte, con uno di quegli scherzi malefici che facevi compiere ai tuoi "Amici miei". E l'hai fregata, sì... l'hai fregata per bene. La grande falciatrice non ha dovuto scomodarsi per venire a prenderti, sei stato tu a gettarti fra le sue braccia.
Certo, ti avevamo sentito solo poche settimane prima, così lucido, così giovane. Tu, un uomo di quasi cento anni, che parlavi di rivoluzione! Che stavi in piazza con gli studenti. Che parlavi come un trentenne, con la consapevolezza, credo, che la maggior parte dei trentenni era molto più vecchia di te.
Sei stato un grande maestro, caro Monicelli. Bastardo come solo i toscani sanno essere. Di quella sottile e umoristica cattiveria che veniva fuori nei tuoi capolavori. In tutti. 
"Io so' io e voi nun siete un cazzo" facevi dire ad Alberto Sordi ne "Il marchese del grillo". Bene... tu eri tu e gran parte del mondo non è un cazzo, ma almeno quando guardiamo i tuoi film... sì, per un paio d'ore magari anche noi siamo qualcuno.


martedì 29 novembre 2011

29 Novembre

Ormai il nostro vocabolario si sta arricchendo: spread, default, bund... chi non si sciacqua la bocca con questi termini, pensando o facendo finta di capirci qualcosa? 
Ma il dramma è che non ci capiscono niente nemmeno quelli che sarebbero deputati a farlo. Economisti, politici, banchieri... mamma mia che tristezza. Il mondo è in mano a degli idioti, niente di più, niente di meno. Gente che non sa nemmeno avvitare una lampadina la troviamo a decidere il destino di miliardi di persone. 
Direttori, amministratori delegati, dirigenti... avete mai conosciuto qualcuno di questi qua? Non sanno niente, si riempiono il palato di termini a loro completamente sconosciuti, ma che fanno fighi, per carità. E poi l'importante è avere la cravatta nuova a stringere il collo ogni mattina.
Sono dei totali incapaci, solo che sono spietati, quello sì. Perché non occorre essere capaci per emergere, bisogna solo essere dei gran figli di puttana. Picchia bene chi picchia per primo, non occorre che sia più forte. Chi picchia per primo e picchia per fare male, magari un bel calcio nelle palle. Ecco... questa gente qua è così: non si vergogna a dare calci nelle palle ed è con questo che arrivano a comandare. 
E la storia gli è andata dietro. Abbiamo sbagliato tutto, in effetti. Quelli capaci sono finiti sui roghi, da sempre... e sempre ci finiranno. Quelli stupidi ma senza scrupoli detengono il potere. E lo deterranno.
Dovremmo provare a non fidarci. Ma non ci riusciremo, dopotutto c'è quel qualcosa che Lucas chiamava "lato oscuro della forza" che attira i poveri terrestri. Come si spiegherebbe, altrimenti, tutto quello che siamo costretti a vedere e a subire? 
Ognuno faccia come gli pare... personalmente diffido di chi porta giacca e cravatta. Diffido di chi sfoggia sorrisi rassicuranti. Diffido di chi dice che "fa quello che fa" per il bene degli altri. Insomma... diffido di voi. 
E... buon controllo dello spread; qualche nerd deficiente ve ne sarà grato.


lunedì 28 novembre 2011

FUGGITE CERVELLI, FUGGITE...

Riporto questo articolo... vorrei tanto fosse tutto falso, che fosse un'invenzione, una mistificazione, insomma... una bugia, cazzo!
Ma d'altronde che ci si vuole aspettare da un paese dove ci sono ministri che "vedono" tunnel che collegano la Svizzera con il Gran Sasso e tutto il resto della beata compagnia che non starò certo io a ripetere...
Un paese dove chi più è imbecille più ha possibilità di emergere. Me ne vengono in mente alcuni, anche conosciuti personalmente... emeriti idioti nati nella famiglia giusta; un tempo si diceva "figli di papà". Buoni a nulla, solo a stappare bottiglie e a fingere di essere interessanti per portarsi a letto la deficiente di turno pronta a bersi tutto. Ma d'altronde funziona così, forse, dopotutto... ci sta pure bene. 
Chi ha un cervello... (quei pochi)... fugga.


Lanzetta, il superchirurgo bocciato da 9 anni
Cattedra negata. I giudici in 5 verdetti: sbagliato



Quando inventò le Loonarie collocandole nel Pacifico sud-orientale, lo scrittore Godfrey Sweven in «Riallaro, l'arcipelago degli esilii», immaginò un gruppo di isole dove trovavano rifugio i pazzi. E come spiega Anna Ferrari nel «Dizionario dei luoghi immaginari» c'erano appunto «l'Isola degli Snob, dove tutti hanno un'aria saccente» e «l'Isola del Giornalismo, dove risiedono gli affetti da grafomania» e «Satutto, l'isola i cui abitanti credono che la loro terra sia la più fertile, ricca e invidiata al mondo» e appunto «l'isola di coloro che vivono ignorando la legalità»: Paranomia.
L'avesse saputo prima, Marco Lanzetta dice che avrebbe evitato di perdere tempo con gli avvocati. Il guaio è che, pur avendo studiato, vissuto, insegnato e operato da un capo all'altro del pianeta, dal Canada alla Francia, dall'Australia all'Africa, da dove è appena tornato dopo aver passato 17 giorni di «vacanza» tentando di ricostruire le mani a decine di bambini del Togo, del Benin, del Ghana e del Burkina Faso, non immaginava che quel luogo esistesse davvero.

Tutto comincia quando il chirurgo, dopo essersi specializzato in chirurgia della mano nel New South Wales e in Quebec, aver avuto giovanissimo la direzione della Microsearch Foundation di Sydney, aver partecipato nel 1998 a Lione al primo trapianto al mondo di una mano e avere già pubblicato molti dei suoi 190 libri, capitoli di opere collettive e articoli scientifici anche sulle maggiori riviste internazionali, decide di concorrere per una cattedra di professore di ruolo di prima fascia alla «Insubria» per «malattie dell'apparato locomotore». La materia che già insegnava come «associato» alla Bicocca: «Pareva un bando studiato per me». Errore: «Era destinato ad altri».

Come ricorda l'ultimo dei verdetti giudiziari, il tormentone comincia nell'autunno 2002. Quando, esaminati i candidati alla cattedra, la commissione giudicatrice dichiara «idonei i professori Giorgio Pilato e Paolo Tranquilli Leali e non idoneo il Prof. Lanzetta». Giusto? Sbagliato? Non ci vogliamo neppure entrare. Perché se anche Lanzetta fosse ingiustamente considerato un fenomeno nel resto del mondo ma fosse in realtà un somaro casualmente finito a fare il primo trapianto di mano al mondo e gli unici trapianti simili in Italia, il punto è quello che dicevamo: le sentenze vanno rispettate sì o no anche nelle università?

Il nodo è questo: convinto che ci fosse una sproporzione abissale fra il curriculum e la mole di lavori scientifici che aveva presentato lui (soprattutto in inglese, tra i quali due saggi su «Lancet») e quelli degli altri due concorrenti, Lanzetta fa ricorso al Tar e il Tar, sia pure con tempi biblici, nel 2006 gli dà ragione «giudicando irragionevole la valutazione negativa della commissione giudicatrice sulla particolare specializzazione del Prof. Lanzetta». I due professori premiati dall'ateneo ma non dai giudici e la «Insubria» ricorrono al Consiglio di Stato, che di nuovo dà torto a loro e ragione a Lanzetta. A quel punto cosa fa il rettore? Rinnova la «procedura di valutazione», accetta le dimissioni del presidente della commissione, lo sostituisce con un altro e conferma gli altri componenti della «giuria». La quale, un anno dopo la sconfitta in appello (che fretta ci sarà mai...) torna nel novembre 2008 a dichiarare vincitori i professori Pilato e Tranquilli Leali e a bocciare Lanzetta che ha osato contestare il loro giudizio.

La cosa è così «eccentrica» che finisce sul Corriere dove Mario Pappagallo ricorda chi è il trombato («500 interventi all'anno alla mano con il suo team dell'Istituto di chirurgia della mano di Monza, con sedi anche a Milano, Bologna e Roma»), raccoglie la sua accusa contro le selezioni nostrane («Concorsi pilotati dove già si sa chi deve vincere e si agisce per demotivare chi vuole partecipare») e scrive: «Il Lanzetta non idoneo a insegnare chirurgia della mano in Italia è una vittima illustre della demeritocrazia italiana, delle lobby delle commissioni giudicanti, del nepotismo radicato nei nostri atenei». Risultato: zero. Come a niente servono le denunce dei siti web nati contro «ateneo-poli».

Cocciuto («ormai ho chiuso con l'università italiana ma questo andazzo deve finire»), Marco Lanzetta torna a fare ricorso. E il Tar, nell'aprile 2009, torna a dargli ragione disponendo «l'annullamento degli atti impugnati». E otto mesi dopo torna a fare lo stesso, stroncando il contro-ricorso della «Insubria», anche il Consiglio di Stato. Che ordina all'università «di rinnovare la procedura di valutazione comparativa annullata e di innovare la composizione della Commissione giudicatrice» per «assicurare condizioni oggettive di imparzialità» dato che già due volte la stessa commissione non aveva rispettato ciò che la magistratura aveva stabilito.

Avete perso il conto? Lanzetta batte Insubria quattro sentenze a zero. Ma non è finita. Nel 2010 l'università rifà nuovamente la selezione: sempre promossi i soliti due, sempre bocciato Lanzetta. Il quale, mai morto, torna in tribunale per l'ennesima puntata della telenovela. Questa volta, gli si schierano contro non solo l'Insubria e i docenti promossi ma anche il ministero. E siamo alla sentenza finale. Dove la prima sezione del Tar milanese, presieduta da Francesco Mariuzzo, censura che la commissione abbia «dato positivo rilievo a una monografia del Prof. Pilato («La pseudoartrosi dello scafoide») pubblicata dopo la pubblicazione del bando di concorso». Eccepisce che di quella commissione faceva parte «il prof. Gianni Zatti che, avendo collaborato con il prof. Pilato sia in ambito universitario sia nell'attività libero professionale, sia pubblicando un'opera come coautore, sarebbe stato incompatibile alla carica». E infine scrive nero su bianco che certo, una commissione ha «ampia discrezionalità tecnica». E ovviamente «il giudice non può sostituirsi». Però «è anche incontestabile» che «egli non può esimersi dall'accertare l'eventuale erroneità dell'apprezzamento da essa condotto, ove tale erroneità sia in concreto individuabile». Per capirci, se emergono storture macroscopiche «al di fuori dell'ambito dell'opinabilità» allora il magistrato ha sì il diritto e il dovere di intervenire.

Un esempio? «La tecnica del trapianto della mano (esperienza vantata solo dal candidato Lanzetta) non appare essere stata valorizzata rispetto alle diverse esperienze degli altri candidati». Un altro? «In 13 delle 15 pubblicazioni presentate il nome del Prof. Lanzetta figura per primo» e c'è una evidente sproporzione rispetto «alla borsa di studio assegnata al candidato Giorgio Pilato dal governo giapponese».

Insomma, dice l'ultima sentenza, l'ultima selezione della Insubria «riproduce i medesimi vizi» delle altre annullate, è «in contrasto» con ciò che aveva disposto il giudice e pur eseguendo formalmente quegli ordini «tende in realtà a perseguire l'obiettivo di aggirarli sul piano sostanziale, in modo da pervenire surrettiziamente al medesimo esito già ritenuto illegittimo». Quindi l'intera procedura «deve essere annullata». Risultato finale: Lanzetta batte Insubria 5-0. In un Paese serio, davanti a un risultato così, si dimetterebbero il rettore, i commissari, i professori dichiarati vincitori, tutti. Ma questo, si capisce, in un Paese serio e non a Paranomia...

Gian Antonio Stella


giovedì 24 novembre 2011

IL FORNARETTO DI LONDRA

Oggi vado di amarcord, con le parole di un grande giornalista sportivo: Claudio Ferretti e il suo resoconto di una grande sconfitta che divenne una grande vittoria. L'epica maratona di Dorando Pietri alle Olimpiadi di Londra del 1908, quello che è, ancora oggi, uno degli episodi più famosi di tutta la storia delle Olimpiadi. Storie di altri tempi, di altri uomini, di altro sport, perfino. E storia di vita, perché a volte non è così obbligatorio arrivare primi.
Ma non c'è bisogno di spiegare molto, se non affidarsi alle parole scritte, tanti anni fa da Claudio Ferretti.

Eccolo! E' il numero diciannove. Ha i baffi, uno zucchetto da sacerdote, un paio di mutandoni neri che gli arrivano ai ginocchi e una maglietta bianca. E' piccolo e caracolla sgraziatamente per la pista come se non sapesse dove andare, come un uccello spaurito che ha perso lo stormo. Sugli spalti ottantamila persone sono scattate in piedi, simultaneamente, per rendergli omaggio. Solo una signora dall'abbondante cappellino è rimasta seduta, in tribuna d'onore, insieme al suo piccolo seguito; sorride chinandosi per dire qualcosa al suo vicino di destra.
-Chi è?
-Un italiano. Pare che di mestiere faccia il fornaio. Pietri si chiama: Dorando Pietri.
Il nome scivola fino all'ultimo posto dei "popolari" sull'onda di un applauso che sfuma quasi subito.
-Ma che fa? Sbaglia strada.
-No, guardate... gli hanno indicato la direzione giusta.

Effettivamente non si è trattato di un ingresso trionfale. La coreografia ne sarebbe stata degna: un pubblico numeroso ed entusiasta, un boato, un applauso fragoroso. Ma, appena entrato nello stadio, Pietri si è comportato come un attore al debutto, riluttante ad andare in scena. S'è guardato attorno, gli occhi imbambolati, e poi ha imboccato la pista dalla parte sbagliata. Qualcuno gli ha segnalato l'errore e lui, o sguardo sempre assente, servizievole e meccanico come chi recita una parte non sua, è tornato sui suoi passi: dopo 42 km di corsa c'era proprio bisogno di quel po' di strada in più...
Intanto, messa da parte per un attimo l'ammirazione per il piccolo italiano, la gente si chiede che fine ha fatto il suo Duncan, il miglior fondista d'Inghilterra. Allo stadio sono venuti quasi tutti per veder vincere lui, il grande favorito: non sanno che si è ritirato, insiem con il canadese Longboat e lo statunitense Morissey, il vincitore della maratona di Boston. La corsa ha visto saltare uno a uno tutti i più forti per lasciare spazio agli outsiders.
Sono le due e mezzo di pomeriggio quando la principessa del Galles dà il via a quella che diventerà la gara più leggendaria della storia delle Olimpiadi. Cinquantacinque concorrenti partono a spron batttuto per un percorso che gli inglesi chiamano "via di velluto". Ne arriveranno solo ventotto.
C'è un sole straordinario per Londra e per gli atleti è un vero supplizio. Pietri non è il solo italiano in gara: con lui c'è anche il romano Blasi, che però si ritirerà quasi subito. Pietri invece comincia la sua rimonta al trentesimo chilometro, quando aggancia i battistrada Lord e Price, li supera ed è secondo all'inseguimento di Hefferon. Da dietro lo raggiunge il canadese Longboat, ma la sua alimentazione lascia alquanto a desiderare: per darsi la carica, infatti, il canadese fa ricorso a una bottiglia di champagne che si porta sempre appresso. L'effetto è immediato: ubriaco di fatica e di alcool Longboat si ferma a dar di stomaco in un prato e poi preferisce chiedere un passaggio a una vettura dell'organizzazione.
Gli accompagnatori di Pietri, intanto, hanno il loro daffare per liberare il fornaio dalle asfissianti attenzioni di un'automobile americana che lo sommerge in un mare di polvere. A 6 km dal traguardo, l'italiano ha quasi raggiunto Hefferon, che ormai lo precede solo di duecento metri. Ancora uno sforzo: due km di inseguimento ed è raggiunto. Per quasi tremila metri i due restano assieme, poi Hefferon crolla e Pietri se ne va: manca solo un miglio allo stadio. Alle spalle del tandem di testa, intanto, è segnalato un americano di 19 anni di nome Johnny Hayes. E' vicinissimo, ormai; prima che Longboat si ritirasse Hayes aveva un distacco da Pietri di più di 2 km, ora è a poche centinaia di metri.
Quando Pietri entra nello stadio il suo sguardo è appannato, il cuore gli scoppia, forse non ode nemmeno il boato che lo accoglie. Passa una prima volta la linea del traguardo e crede di essere arrivato: rallenta, si ferma quasi, ma gli fanno cenno di continaure. E Pietri continua, automaticamente, come un pupazzetto la cui molla è agli ultimi singulti. Un urlo, quanto diverso da quello che lo aveva salutato poco prima: Pietri è caduto! Una piccola folla di giudici gli corre incontro (pare ci fosse anche Sir Arthur Conan Doyle, il "papà" di Sherlock Holmes) ma l'italiano ha ancora la forza di rialzarsi da solo. Ormai il traguardo è a portata di mano, ma Pietri non se ne rende conto. Cade ancora, la linea di arrivo sarà a una trentina di metri. Stavolta lo rimettono in piedi di peso. Intanto Hayes ha fatto il suo ingresso in pista e sembra che abbia le ali ai piedi. Si corre un'assurda corsa tra una lepre e una tartaruga. Pietri cuce un drammatico zig-zag: tre metri a destra, due a sinistra, per avanzare di un passo. Hayes rimonta ma il fornaio di Carpi è ormai a cinque metri dalla fine. Il pubblico è diviso a metà: c'è chi sembra sospingere l'italiano con il suo incitamento e chi soffia alle spalle dell'americano perché annunci il distacco.
-Può ancora farcela.
-Impossibile, l'altro sta per arrivare.
Pietri barcolla, tende una mano, quasi volesse afferrare un miraggio; sta per cadere una terza volta quando, provvidenziale come un angelo custode, un giudice, paglietta in testa e megafono in mano, lo sorregge per un braccio. Pietri si rianima, ha un ultimo guizzo e taglia finalmente il traguardo, poi stramazza al suolo. Due ore, cinquantaquattro minuti, quarantasei secondi, tanto è durato il suo calvario. Passano 32 secondi e arriva Hayes. Intanto in tribuna d'onore si consuma una piccola tragedia: la signora con il cappellino si è portata una mano al petto, accasciandosi sulla poltrona.
-La regina è svenuta!
-I sali, presto.
Ma è stato tutto inutile; persino una regina è svenuta per nulla. Pietri sarà squalificato e la vittoria verrà assegnata a Johnny Hayes, Stati Uniti. L'intervento del giudice è stato irregolare, così come l'aiuto prestato all'italiano dopo la seconda caduta. A nulla varranno le proteste degli accompagnatori di Pietri, secondo i quali gli aiuti non sono mai stati richiesti. Al fornaio di Carpi resterà l'onore del paragone con Filippide, il primo, drammatico eroe di Maratona.
Ah, dimenticavamo... anche quello di un'uscita trionfale: ottantamila persone tutte in piedi, mentre escono insieme, lui in barella e la signora dal cappellino con il suo seguito.
(Claudio Ferretti – Le 40 leggende dello sport italiano)



mercoledì 23 novembre 2011

WILD WEST SHOW

Ogni volta che guardo un film western, come ho fatto oggi, mi viene da pensare a come gli americani siano dei fenomeni nel saper confezionare e vendere qualsiasi cosa. D'altronde, se comandano il mondo ci sarà pure un motivo. Nella fattispecie, oggi pensavo che quella che chiamiamo "epopea western" si tratta in realtà di una cinquantina d'anni di storia che abbraccia una parte degli Stati Uniti. Ma che, grazie appunto soprattutto al cinema, è diventata una parte fondamentale del costume e della cultura negli ultimi due secoli.
Come valenza storica, certo, ne ha ben poco. Cosa ci sarebbe di affascinante nel descrivere la vita di poliziotti di provincia (gli sceriffi) alle prese con qualche ubriacone o ladro di galline? E i famosi cow boys? Vaccari... niente di più, niente di meno. E le sparatorie? In realtà non riuscivano a colpirsi stando di fronte a pochi passi, altro che bucare i dollari lanciati in aria o spezzare in due una carta da gioco.
Penso all'episodio della sfida all'ok Corral. In realtà fu soltanto uno squallido agguato da parte dei fratelli Earp e risolto in una veloce sparatoria di pochi secondi. Ma che epica ci ha regalato il cinema su questo e su tanti altri episodi del genere.
Certo... una città che si chiama Tombstone (Pietra tombale) poteva nascere solo da quelle parti. Chissà, forse i fondatori avevano già un'idea di spettacolo molto definita e pensavano che un giorno un nome del genere avrebbe suscitato un certo fascino su chi avrebbe dovuto raccontare le gesta dei suoi abitanti.
Insomma... comunque la si giri, c'è poco da dire sull'abilità degli americani. Se pensiamo a quanta storia vera è accaduta in Europa, in una decina di secoli, quante vicende, quanti episodi, quanta vera crudeltà... quanto di tutto, insomma. Pensiamo a quanto sia "western" il sud Italia e il periodo del brigantaggio durante le guerre per l'Indipendenza e dopo l'Unità d'Italia. A quanto ci sarebbe da raccontare su questi personaggi. Ma... d'altronde chiamarsi Giovanni non ha lo stesso appeal che chiamarsi John. Questo si sa.
E godiamoci questi western (che peraltro, personalmente adoro) allora. Senza pensare a quanto poco fossero interessanti queste vicende nella realtà, dopotutto se il cinema veniva e viene chiamato "la fabbrica dei sogni" un motivo ci sarà. E una colt che spara, una stella che luccica, un sigaro tenuto a mezza bocca, un cavallo che galoppa nella Death Valley, un assalto di Indiani alla diligenza... tutto quanto un genio mistificatore come William Cody, meglio conosciuto come Buffalo Bill, aveva capito ben prima del cinema e aveva chiamato Wild West Show.
Qualcuno direbbe: bei tempi!!!


lunedì 21 novembre 2011

20 Novembre 2011

A volte non si sa cosa scrivere. Si ha voglia di farlo, ma si riesce soltanto a buttare giù due righe di inutili segni neri su sfondo bianco e poi cancellare. E cancellare... e cancellare...
Ci sono giorni in cui la memoria prende il sopravvento e vorrebbe essere solo lei a dettare alle dita il percorso da fare sulla tastiera. Ma a cosa serve? A niente. E allora com'è che non ti riesce di chiudere tutto? Di andare a dormire, oppure di uscire e... andare a camminare, entrare in un bar e ubriacarti, salire in macchina e guidare fino a che non finisce la benzina... potresti andare a suonare qualche campanello, oppure a puttana, o ancora a sederti da qualche parte a osservare il niente. No, invece rimani lì... a lasciar scorrere il tempo. A fissare la memoria su particolari, su due occhi, su dita che scorrono la costola di un libro, su un bicchiere di sangria e una fetta di sacher. Su un tavolo bianco e un foulard rosso. A parole, sguardi, sensazioni. Ed è tutto inutile, più o meno come quella sigaretta lasciata nel posacenere che si consuma lentamente senza uno scopo.
Come una data cancellata dal calendario.
Come una vita senza una vita.
Come un ricordo senza un riflesso.
Come un pianto senza più lacrime.
Come un telefono che suona a vuoto.
Ma in fondo... cosa importa? Tanto sono solo parole. Come lo furono in un tempo lontano, che sembra ieri, ma forse non è mai esistito; o forse sì, chi lo sa... ma d'altronde il gioco più riuscito del tempo è quello di far finta di esistere. E noi con lui.


sabato 19 novembre 2011

18 Novembre

Come cazzo è possibile che a una persona piaccia essere svegliata alle 6.30 da una sveglia, scivolare fuori dal letto, vestirsi, mangiare a forza, cagare, pisciare, lavarsi i denti e pettinarsi poi combattere contro il traffico per finire in un posto dove essenzialmente fai un sacco di soldi per qualcun altro e ti viene chiesto di essere grato per l'opportunità di farlo? (Charles Bukowski)

Grande Buk, eh? 
Grande, sì.
Lui.
E voi?
Quanti di voi hanno usato queste parole, magari per farsi belli e maledetti davanti a una ragazza e poi... alle 6.30 del mattino dopo è suonata la sveglia?
Quante di voi si sono lasciate conquistare da queste parole, pur sapendo, o immaginando che al mattino dopo.. alle 6.30 sarebbe suonata la sveglia?
E via, verso le vostre prigioni! Ma poi parlate di libertà, il bello è quello. Che ne parlate, come se la conosceste. Che citate questo Bukowski ma poi vi comportate come dice lui in queste parole.
Ma certo... Bukowski si nasce, mica si diventa. Il problema è che tutti o quasi pretendono di esserlo. E sento sempre dire un sacco di cazzate, sento svalutare parole importanti e preziose, che diventano tanto banali da sciogliersi nelle bocche impastate e piene di cornetti alla cioccolata mangiati di corsa perchè poi c'è da andare a produrre! 
Uau!
Questa è la libertà allora?
Bene... se è questa, sono contento di non essere libero. Un po' come te, Buk.


mercoledì 16 novembre 2011

UN MATTINO DI META' NOVEMBRE

E poi ci sono quei giorni un po' così... che ti svegli con il cervello in riserva e l'anima frullata e pronta per un frappè che avrà un gusto troppo amaro. Amaro come quel qualcosa che ti sale dalle narici e arriva a pungerti i pensieri e ti porta ad aggiungere una riga alla lista dei già troppi "perché?". Ma tanto sai che una risposta non puoi dartela, l'hai già fatto tante volte, già tanto tempo fa ed è rimasta appesa a un filo sottile appeso nel nulla. Che sventola come una bandiera senza più colori, sbiadita come il mattino che ti appare davanti dalla finestra. E rimani lì... un pezzo di legno inanimato, senza nemmeno la speranza di diventare almeno un burattino. E vorresti scappare, urlare, correre, piangere, ma non lo fai e se lo facessi sai già che non servirebbe a niente. E ti avvolgi ancora di dubbi, pensando che invece sarebbe meglio a volte avere delle stupide certezze. E vorresti essere come le tante persone che vedi, con i loro sorrisi di plastica, le loro vite confezionate e le loro certezze talmente effimere da diventare incrollabili. E vorresti essere così perché ti rendi conto che stanno meglio di te. Perché se ne fregano. Se ne fregano di tutto, anche delle catene che portano al collo. E tu che le catene non le hai mai volute, ti rendi conto che stare lì ad aspettare il biscottino è molto più comodo di andare a procurarselo da soli, il cibo. E maledici quel dannato senso di colpa (che dove cazzo lo avrai trovato e quando sarà il giorno in cui ti è stato inculcato?) che ti prende quando pensi di aver fatto del male a qualcuno, ché tanto poi sai benissimo che invece quando fanno del male a te se ne fregano. E ci ridono su. E vanno avanti sulle loro certezze. Che tu chiami stupide, ma intanto loro sorridono e tu no. E allora ti dici per l'ennesima volta: questa è l'ultima, da domani me ne frego! E invece no... già mentre lo dici sai già che non sarà così. Da domani continueranno a fregarsene altri, non tu. E continuerai a fidarti. E continuerai a perdere. E continerai a pensare: ma perché si deve vincere o perdere? Non è mica una gara! E bravo fesso... non lo è per te forse. E così facendo sai già che arriveranno altre mattine come questa. Altri risvegli come questo. Altri sonni andati e perduti dietro a volti e fantasmi crudeli. E il rimedio non c'è, così come, e questo lo sai bene anche se fai finta di no, non c'è proprio niente da capire. Proprio niente.


martedì 15 novembre 2011

Un illustre clandestino

Oggi lascio la parola al più illustre dei Clandestini: Roberto Saviano e a questo splendido articolo che ho letto sul sito de La Repubblica. E, mentre lo rileggo, non posso fare altro che pensare a qualcosa che ho sentito tempo fa... e che qualcuno forse dovrebbe spiegare. E cioè che in un paese appena appena normale, non dovrebbe essere Saviano a dover vivere sotto scorta, ma coloro che lui ha denunciato. Dovrebbero vivere sotto scorta per la paura di essere linciati dalla gente. Ma non funziona così.


Il ventennio dell'arabesco
di ROBERTO SAVIANO

ESISTE una parola che più di tutte descrive ciò che il governo Berlusconi è stato per l'Italia, ciò che lo ha davvero caratterizzato in senso politico ed economico, questa parola è immobilismo. Negli ultimi venti anni non è successo niente per il Paese. Non una delle riforme promesse nel 1994 e che avrebbero contribuito a scongiurare la crisi che ora l'Italia sta vivendo, è stata fatta. Ed è evidente che dove non sono riusciti gli elettori, dove non sono riuscite le opposizioni, dove non è riuscita la stampa, dove non sono riusciti gli intellettuali, è riuscito il mercato. Ironia della sorte, proprio Silvio Berlusconi, che si è sempre vantato di aver creato un impero dal nulla, di aver incarnato il sogno americano del self-made man, che si è sempre considerato campione di numeri e denaro, è stato sopraffatto dove si sentiva onnipotente, in quello che ha sempre detto essere il suo stesso elemento: dal mercato. È stato commissariato da un'economia che della sua gestione non poteva più fidarsi.

Ennio Flaiano diceva: in Italia la linea più breve tra due punti è l'arabesco. I vent'anni di governo Berlusconi sono stati un arabesco: la linea più lunga possibile tra il vecchio e il vecchio che si vestirà di nuovo. Quante bugie in questi venti anni, quante mistificazioni. Dalle false, umili origini, perché in lui l'italiano medio potesse identificarsi, alla menzogna più grande di tutte, passata di bocca in bocca e progressivamente svuotata di ogni significato, secondo cui un uomo che ha creato un impero, che è ricco e a capo di aziende floride - o che floride apparivano - non ha bisogno di rubare, di sottrarre denaro pubblico al Paese, come avevano fatto i partiti nella prima Repubblica. Un sogno fondato su menzogne ed equivoci perché, fatti fuori i padrini politici, occorreva che Berlusconi prendesse in mano la situazione. Del resto lui stesso ripeteva che il suo ingresso in politica avveniva per tutelare i suoi interessi. Suoi personali e delle sue aziende. Ed è esattamente quello a cui abbiamo assistito nei venti anni in cui è stato protagonista indiscusso della scena politica italiana. Gli incarichi istituzionali sono divenuti strumento di realizzazione di affari privati. Gli stessi capi di Stato stranieri, che negli ultimi anni gli sono stati più vicini, non sono altro che soci. Dal gas di Putin: gli affari energetici russi rappresentano il 70% delle esportazioni verso l'Italia e la stessa Hillary Clinton ha avanzato dubbi sulla natura affaristica delle convergenze politiche tra Berlusconi e Putin, all'imbarazzante amicizia con Gheddafi: dal giugno 2009 la Lafitrade della famiglia Gheddafi e la Fininvest, tramite la controllata lussemburghese Trefinance, sono i veri proprietari della Quinta Communications di Tarak Ben Ammar. L'affare con la società tunisina, in cui Lafitrade ha il 10% e Fininvest il 22%, ha aperto la strada al riciclo occidentale, a partire dall'Italia, di una massa voluminosissima di petroldollari di Gheddafi, valutata 65 miliardi di euro.

Nessuna legge per l'Italia, solo leggi per lui. E non che gli mancassero i numeri in Parlamento. Ha avuto, e per molto tempo, una maggioranza incredibilmente forte che gli avrebbe consentito di attuare le riforme promesse, che lo avevano consacrato - all'indomani della sbornia seguita al terremoto giudiziario che ha distrutto i vecchi partiti italiani all'inizio degli anni '90 - l'uomo nuovo, il vento nuovo, il campione di quel riformismo liberale che lui contrapponeva alla stagnazione delle sinistre incapaci di trasformarsi. Non la riforma della giustizia, non quella delle pensioni, nessuna prospettiva per le nuove generazioni vittime, viceversa, di una nefasta deregolamentazione del mercato del lavoro che ha portato con sé una precarizzazione finalizzata solo a favorire le aziende, legittimate ad adottare un sistema di sfruttamento dei lavoratori, che non prevede alcuno spazio per la formazione. In Italia il settore pubblico è allo sfascio, la sanità non ha standard degni dell'Europa, la scuola e l'università arrancano. Le spese per la nomenclatura militare deliberate dal ministero della Difesa - presieduto in questi anni da un ex (ma non tanto, come ama ripetere) fascista, Ignazio La Russa - hanno umiliato, deriso, lo stato di abbandono nel quale versa la ricerca scientifica nel nostro Paese. Il Parlamento è stato per anni impegnato a discutere, emendare e votare leggi ad personam e leggi, come le abbiamo definite, ad aziendam. E il mondo nuovo che Berlusconi aveva promesso è diventato un mondo vecchio, più vecchio di quello che lo ha preceduto. Il sogno liberale è divenuto un incubo di "lacci e lacciuoli", quelli dai quali prometteva di liberare gli italiani e che invece ha solo contribuito a stringere più forte, come in una morsa. Il governo che verrà avrà l'arduo compito di attuare le riforme economiche che potevano essere pensate e discusse con le parti sociali nei passati venti anni e che invece strozzeranno l'Italia nei prossimi mesi, come un boccone troppo grande, da ingoiare comunque, poiché la necessità poco spazio lascia al contraddittorio politico.

L'Europa si fida di Mario Monti e ciò potrà dare ossigeno all'economia italiana. Ma se davvero toccherà a lui raccogliere il testimone, dovrà fare scelte difficili che, la storia italiana lo dimostra, non saranno premiate. Formare il nuovo governo sarà infinitamente più facile che farlo resistere, nelle insidie dei prossimi giorni, settimane, forse mesi. La lenta e ingiustificabile agonia inflitta nell'ultimo anno del berlusconismo, in uno con la pratica dell'"acquisto" di parlamentari dell'opposizione, nel tentativo disperato di puntellare una maggioranza politicamente inesistente, ha prodotto la paralisi del Parlamento e ha favorito la formazione di numerosi centri di potere all'interno del partito del padrone, il Pdl. Nella prima Repubblica si sarebbero chiamate correnti e, forse, non è un caso che uno degli uomini chiave del tracollo berlusconiano sia stato un esponente simbolo della corrente andreottiana, Paolo Cirino Pomicino, ministro delle Finanze in epoche scellerate, di vacche grasse e irresponsabilità diffusa. Tutti questi piccoli potentati non rispondono più al vecchio capo e il Pdl non è più un partito coeso, dato che lo stesso suo fondatore Berlusconi è pronto a disfarsene; uno scenario grottesco, nel quale ognuno pare essere pronto a sabotare il percorso del governo Monti, per guadagnare un posto al sole, una visibilità perversa. Il governo che dovrebbe nascere nelle prossime ore potrà morire da un momento all'altro. E ciò accadrà nonostante lo sforzo del presidente della Repubblica, che nel pieno rispetto delle sue prerogative costituzionali, ha condotto il Paese con spirito saldo.

Del resto, anche se l'uomo Berlusconi sembra finito, il berlusconismo non è ancora morto. Sta lì, paziente, aspettando di risorgere, pronto a dire "senza di me è stato peggio". I suoi protagonisti aspettano di speculare sui momenti difficili che l'Italia vivrà, fingendo di non esser stati anche loro a generarli. Già adesso, alcuni surreali ex neo-con e ora neo-keynesiani (alla bisogna) maître a' penser mistificano la realtà, difendendo l'indifendibile e reclamando libere elezioni, ovviamente senza spendere una sola parola sulla legge elettorale in vigore, dalla stessa uscente maggioranza introdotta e significativamente definita, dal suo medesimo estensore, porcellum. L'impressione è che, ancora una volta, ci sia spazio per tutto tranne che per il talento e per la volontà di ricostruire davvero un Paese che più ancora che economicamente è piegato nel morale, nella fiducia e nella speranza che si possa tornare a essere felici e realizzati senza dover andar via. In Italia ancora una volta il rischio è che si faccia piazza pulita perché si possa più agevolmente tornare indietro

lunedì 14 novembre 2011

La fine (?) del Caimano

E così se n'è andato, almeno, pare. Il Caimano esce di scena (così, sempre, almeno pare). Ma il caimanesimo no. Quello rimane, ben saldo nelle abitudini di chi il Caimano lo ha voluto e, soprattutto, purtroppo, di chi lo ha rispettato. Ed è questo che fa più paura. La nemmeno troppo strisciante consuetudine di vedere e volere la vita così come lui ce l'ha mostrata in tutti questi anni. Mi spaventa l'omologazione, spesso inconscia, di pensiero e, talvolta, anche di fatto, insinuata nella vita e nelle abitudini di ognuno.
Un po' come una sorta di virus che si spande. Nessuno lo vuole ma prima o poi tutti ne restano contagiati. Ed è difficile guarirne oggi, dopo anni e anni di martellamenti continui e di passivo adeguamento a un modo di fare che è stato forse imposto, sì, ma alla fine accettato.
Che poi, ripensandoci... tutto ciò che ha toccato quell'uomo si è trasformato in oro per lui e in merda per la dignità, l'etica, la civiltà, l'educazione. Uno schifo però in cui molti, troppi, hanno sguazzato e continueranno a sguazzare. Fino a diventare abitudine.
E' entrato nel mondo della televisione una trentina di anni fa. Era una televisione diversa, certo, per molti aspetti anche terrificante. Una televisione in cui vigeva, ancora, il moralismo bacchettone della dc, la censura preventiva, la paura di dire anche solo una virgola fuori posto. Ma, in linea di massima, era una televisione che cercava la qualità. Lui ha cambiato le regole, ha trasformato tutto in un baraccone pecoreccio fatto di volgari lustrini e volto all'annullamento del pensiero (anche di quel poco che poteva esserci). E cosa è successo? E' stato contrastato? No, tutt'altro! E' stato imitato. A partire dalla tv pubblica, seguita a ruota da tutte le altre emittenti private che si affacciavano nell'etere. Ed è stata una rapida e inarrestabile rincorsa verso il basso. La gramigna che vinceva sull'erba buona. E noi invece di strapparla, abbiamo fatto sì che prendesse sempre più campo, fino ad apprezzare i campi di gramigna, dimenticandoci il colore e il profumo dell'erba.
Anni dopo, la stessa cosa con il calcio. Anche qui ha cambiato le regole: vincere per forza. Comprava 30 giocatori di cui molti non gli servivano. Ma stando lì, ben pagati, in panchina o spesso in tribuna, erano tolti da altre squadre. E gli altri che hanno fatto? Si sono adeguati. E il calcio è cambiato, è cambiato in peggio. Ma vallo a dire ora, a chi con quel calcio ci è cresciuto. E soprattutto, purtroppo, vallo a dire con chi quel calcio lo ha prima subito e poi si è adeguato. Anche qui rincorsa verso il basso.
E poi la politica, il capolavoro. Trasformata in un baraccone, in un teatro di periferia. Politica fatta di monologhi televisivi, di barzellette, di falsità tanto assurde quanto incredibilmente accolte come una sorta di vangelo. E gli altri che hanno fatto? Qui era anche più facile contrastare, opporre una dignitosa sobrietà alla cacioneria. No! Invece si è preferito adeguarsi anche in questo caso. E anche qui lui ha cambiato le regole del gioco. A modo suo. E anche qui una vergognosa caduta verso il basso, che oggi genera gli Scilipoti e compagnia bella.
Ci sarebbe da vergognarsi, ma non lo faremo, tanto sbagliano sempre gli altri. Tanto nessuno è colpevole. Tanto... sicuramente fra un po'... non l'avrà votato nessuno.
E staremo ad aspettare il prossimo. Che animale sarà questo? Il Caimano ce lo siamo giocati. Vediamo un po' chi sarà a rassicurarci e prepariamoci nel gioco che ci riesce meglio: buttare a terra la cartaccia e dire "ma tanto lo fanno tutti".

domenica 13 novembre 2011

Un'altra sorpresa

Non vorrei farci l'abitudine, sono così poco abituato alle sorprese che ho imparato anche a fare senza. Invece... invece, eccone qua un'altra. Mi scrive una mail una mia amica (dovrei dire "vecchia amica" ma sarei offensivo nei suoi confronti, visto che è parecchio più giovane di me). Si chiama Teresa, ci conosciamo da... diciamo da... un po'. Va bene, Teresa? Non vorrei farla incazzare visto che la fanciulla  fra le altre cose pratica la kick boxing e io non sono più il buon incassatore di una volta. Insomma... mi scrivi, Teresa (sono passato al tu, invece di stare sull'impersonale) dicendomi che su facebook c'è una pagina dedicata a questo blog raggiungibile a questo indirizzo: http://www.facebook.com/pages/Diario-di-un-Clandestino/180235585392674

Non barare, furbetta, so bene che sei stata tu ad aprirlo... e ti ringrazio di questo. Forse l'hai fatto per prendermi in giro, ti conosco sai?? Ma non importa.... l'hai fatto e... e che dire? Niente più di un grazie. Vorrei dirtelo di persona, visto che è tanto tempo che non ci vediamo. Eh? Saranno più o meno 7-8 anni e, se la memoria non mi tradisce, eravamo su quella spiaggia a Juan les Pins. Io tentavo di strimpellare le canzoni degli U2 che piacevano alla tua amica olandese e tu, con quel po' di faccia di culo mista a compassione mi fermasti e dicesti: il bello della chitarra è di non saperla suonare. Sai, lì per lì ci rimasi un po' male, poi nel corso degli anni ho saputo capire e apprezzare quelle parole. Ora ti suonerei una canzone, ma non so cosa ti piacerebbe ascoltare, dopotutto sei così volubile...

E allora non mi resta che ringraziarti ancora una volta... e quando vuoi venire a trovarmi, scrivimi. Ti dirò una stazione in cui posso venire a prenderti.


giovedì 10 novembre 2011

La verità

Cos'è la verità? Eh, a saperlo. Me lo chiedo spesso, visto che la sento sempre così invocata, discussa, celebrata. La verità è un inganno, la verità non esiste, non è mai esistita. La storia ci insegna che la verità è soltanto ciò che fa comodo a chi la storia la scrive. Le religioni ci fanno notare il suo lato più comico e surreale. La verità è un qualcosa di astratto a cui ci aggrappiamo  per suscitare compassione.
Ma soprattutto la verità è difficile. Non si crede alla verità, perché spesso è (o sarebbe) dura da sopportare. La verità è un macigno che pesa sulle spalle, una siringa che inietta un siero amaro nelle vene. La verità è qualcosa che fa paura, qualcosa da cui fuggire a gambe levate. La verità è antipatica, è fuori dal tempo, fuori dallo spazio. E' una chitarra scordata, un libro senza il finale, una sigaretta lasciata a consumare nel posacenere. La verità è un piatto vuoto. E' tutto ciò di cui non abbiamo bisogno, che abbiamo rifiutato per vigliaccheria.
La verità è uno specchio che non riflette al contrario. Quindi non esiste.
La verità è una bugia.
Ma la bugia non è mai verità.


lunedì 7 novembre 2011

No!

NO!

NO!

NO!

NO!
No! Io non ci sto! Non ci sto ai vostri finti sorrisi, non ci sto agli amori urlati da copertina, non ci sto ai sentimenti da reality show, non ci sto agli abbracci di maniera, non ci sto alle parentele inventate, non ci sto alla svendita delle emozioni.
Non ci sto!
Avete barattato la vita con trenta secondi di pubblicità.
Avete venduto la dignità per due soldi di compassione.
Avete confuso il grigio con l'arcobaleno.
Il dolore con l'usura.
Il piacere con il possesso.
La libertà con le catene.
Il tempo con il denaro.
La vita con la morte.
Il sogno con l'incubo.
Parlate di volare ma state sotto terra.
Urlate il coraggio ma vi coprite di ignavia.
Siete capaci soltanto di mentire e vi aggrappate a una verità che non conoscete.
E io dico no!
Perché so ancora dire no!
Perché so dirlo ancora meglio quando sono ubriaco.
Perché voi fate soltanto finta di bere, così come fate finta di vivere.
Fate finta di ubriacarvi. Solo per fare colpo.
E se qualche volta lo fate davvero... io sono comunque più ubriaco di voi.
Sono molto più ubriaco di voi!

venerdì 4 novembre 2011

Genova per noi

Guardo le immagini via internet e non ci credo, come non ci si vuole credere ogni volta che la natura svela il suo volto più terribile e ci fa ricordare di quanto siamo piccoli, impotenti, inutili. Fino a domani, quanto meno; quando torneremo a pensare di essere onnipotenti, superiori a tutto e a tutti. Alla vita stessa.

Genova per noi. Ti ricordo tanti anni fa, Genova. E tu la ricordi elle.bi.? Ti chiamo così, con le tue iniziali, dopotutto non sono nemmeno sicuro di volermi ricordare come ti chiami. Ma allora Genova era per noi, elle.bi. Genova per noi, che sognavamo qualcosa di importante, di sicuro, forse di eterno. Genova per noi, che camminavamo respirando l'aria del mare e sentivamo i profumi del mondo. Di tutti i mondi che confluivano lì. Genova per noi, nelle canzoni che la celebravano e ci risuonavano in testa con i suoi nobili menestrelli. Genova per noi e quella volta che danzasti nuda in Via del Campo e solo io ti guardavo. Genova per noi, che si specchiava nel tuo caschetto nero e nei tuoi occhi vagamente orientali. Genova per noi, che rabbia e desiderio passavano nei nostri cuori sulle ferite della città. Genova per noi, che fosti tu a dirmi: voglio andarci con te. Genova per noi, che l'abbiamo vissuta come un feto materno che ci accoglieva. Fragile e puttana come solo lei sa essere. Genova per noi era Bocca di Rosa e si vedeva solo dal mare. Genova per noi, che oggi piange, così come piangesti tu, in quella sera in cui i tuoi occhi avevano il colore dell'addio.
Oggi non so dove sei elle.bi. Genova è ancora là, ferita, offesa, violentata. Oggi a Genova si soffre. E quelle lacrime immense e pesanti che precipitano dal cielo e trasformano la bellezza in orrore hanno il sapore della morte. Perché oggi a Genova si muore.

mercoledì 2 novembre 2011

2 Novembre...

Oggi ero seduto su un muretto vicino a un centro commerciale e mi stavo gustando una baguette au jambon. Nel parcheggio semivuoto sono arrivati dei ragazzi, probabilmente (anzi, sicuramente, visto l'equipaggiamento) usciti da scuola. Si sono sistemati in una zona deserta, dove non c'erano macchine e in pochi secondi hanno improvvisato un piccolo campo di calcetto. Sono bastati due zaini da una parte e due dall'altra a fungere da pali immaginari. Come sempre. Come abbiamo fatto tutti. Magari in luoghi (senz'altro in tempi) differenti. E' saltato fuori un pallone e quei ragazzi si sono messi a giocare. Che c'è di più bello e rilassante in un gruppo di ragazzi che rincorrono un pallone, che si divertono, che imitano goffamente i loro idoli che calcano palcoscenici più nobili... certo, anche la baguette ha il suo perché ma, per un attimo, ebbene sì... anche per più di un attimo, lo confesso, mi è venuta voglia di saltare da quel muretto e gettarmi a giocare là in mezzo a loro. Per fortuna della mia dignità sono riuscito invece a resistere e, anzi, stavo per allontanarmi quando ho visto due tizi che camminavano verso i ragazzi. Due guardie private, credo... quelli che gironzolano in questi parcheggi per controllare... boh? Chissà poi cosa controllano. Forse che non si avvicinino dei mendicanti a rompere l'inganno del potere del consumo.
Questi due rambo nerovestiti e con passo marziale si sono avvicinati ai ragazzi e li hanno fatti smettere di giocare. A chi davano fastidio? Non c'erano macchine in quel punto. Perché, mi chiedo? Mi è presa una rabbia interiore antica, forte, al limite dell'incontrollabile. Poi ho visto un'altra figura avvicinarsi. Era un uomo con una felpa blu e il cappuccio calato in testa. Si è avvicinato, mani in tasca, poi si è messo a discutere con i due mastini. Non so che si sono detti, ma è stato un attimo. Uno di questi ha cercato di colpirlo, ma il tipo con la felpa non si è fatto fregare e, in un lampo li ha stesi tutti e due. Poi ha alzato il pallone, fatto due palleggi e l'ha restituito ai ragazzi.
No, in realtà non è andata così. Mi sono riscosso da un sogno a occhi aperti. Quel tipo con la felpa blu ero io. Ero io qualche anno fa. La felpa blu ce l'ho ancora e la stavo indossando, ma non ci sono andato là... a dire a quei due stronzi che il loro lavoro non dovrebbe essere quello di cacciare dei ragazzi che giocano a pallone. Che vivono la vita. Ma non ne ho avuto il coraggio e me ne vergogno. Ma non ce la faccio più a cacciarmi in guai ulteriori. Ne ho già anche troppi e per questi devo vivere questa cazzo di esistenza da clandestino. 
Ho guardato mestamente i ragazzi allontanarsi, ho messo le mani in tasca e me ne sono andato anch'io. Non ho il coraggio di guardarmi allo specchio oggi. Non voglio vedere quello che mi rimanderebbe indietro. Anzi, lo so... vedrei la mia immagine che mi mostra il dito medio.
Così come ho voglia di mostrarlo al mondo, in questo momento. Al mondo intero. A tutti voi!


Riflessioni di un matto...

Che esistenza strana, fatta di contraddizioni, di medaglie e loro rovesci, di esistenze sempre sull'orlo della menzogna a se stessi, di noia atavica e di rimedi improbabili.
Di codici... già... di codici.
C'è sempre bisogno di codificare tutto: nome, cognome  attività, pensieri, sensazioni. Il tempo. Abbiamo codificato il tempo, mi piacerebbe sentire cosa ne pensa la natura di questo. La natura per cui il tempo non esiste; per noi invece sì, ed è uno dei nostri più grandi errori e una delle nostre più grandi angosce. Il tempo codificato diventa un nemico da temere, da combattere, da abbattere. Il tempo come distanza che ci separa dall'inevitabile, come una linea retta che parte da un punto e conduce in un altro, inventando allo stesso tempo il concetto (ovviamente incomprensibile) di infinito, senza invece pensare alla soluzione più facile, di un tempo che sia come una ruota, un elemento circolare e non lineare, sempre uguale e sempre diverso. Invece abbiamo bisogno di codificare tutto, anche la morte e la sua paura, che abbiamo codificato con l'esistenza di Dio. 
Le giornate sono lunghe in questa maledetta fogna che qualcuno chiama città. Dopotutto a qualcosa bisogna pur pensare e ormai mi sono posto come missione quella di pensare. Ogni tipo di pensiero, anche il più stupido, anche quello che mi può far scambiare per matto. Come questi che ho scritto qua sopra. Perché qualcuno dirà che sono matto, sì, come no... e volete che me ne freghi qualcosa? Cosa gliene può fregare a qualcuno che è condannato alla solitudine, alla fuga, alla clandestinità, a qualcuno che osserva, ride del mondo e ride anche di se stesso e dei suoi codici. Perché anch'io sono un essere umano, anch'io codifico. Un po' come fanno i matti... in fondo siamo tutti sulla stessa barca.